lunedì 9 agosto 2010

L’Araba infelice

Seduto su una poltroncina di duro acciaio rivestita di morbida stoffa di ciniglia mi guardo attorno alla ricerca dell’ora esatta. Improvvisamente i miei occhi si soffermano su un imponente orologio, di una famosa marca, che segna le 0.05 della notte. Fa un po’ fresco, tiro su la lampo della felpa e incrocio le braccia. La moquette verde e le palme di cartone fanno immaginare di trovarsi in uno di quei bellissimi ed esotici giardini che ammiriamo, fantasticando, nelle riviste delle agenzie di viaggio. Torri, castelli, case, tutte in stile arabo, si stagliano davanti a me, tuttavia anch’esse sono illusioni, disegnate, dipinte per il piacere dell’estetica. Ciò che rapisce il mio sguardo è l’autostrada di gente che si interseca attraverso il lungo ed infinito corridoio, di tutte le razze ed etnie. Rimango affascinato dal colori dei veli e dei vestiti, assordato dalle grida delle gente, sento conversazioni in tutte le lingue e dialetti immaginabili, odori e fragranze di profumi mai avvertiti prima. Intontito dalle sensazioni decido di alzarmi per raggiungere l’uscita, navigo in un fiume di popoli, americani, indiani, malesi, nigeriani, russi, non ne manca nessuno all’appello. Sedotto seguo due arabi con il vestito tradizionale bianco, il lungo velo e ai polsi dei magnifici gemelli di madreperla, loro mi porteranno all’uscita. Riesco a raggiungerla, le porte automatiche si aprono, vengo investito da un caldo prepotente e secco, le urla della gente mi assordano in egual maniera, anzi peggio, attraverso la strada e cerco il pullman, poiché in quel girone dantesco ho perduto la mia guida. Alzo la testa al cielo ed intravedo una caligine grigia, scura, le nuvole appaiono intorbidate, a malapena riesco ad individuare la Luna, anzi la mezza luna, bramo una stella, ma stanotte tutte latitanti. L’aria è densa e i profumi di qualche attimo prima svaniscono lasciando il posto ad un acre odore di smog che viene dai tubi di scappamento degli infiniti pick-up accesi e parcheggiati lungo la via ed i marciapiedi. Salgo sopra il pullman, i sedili sono fatti dello stesso acciaio e stoffa delle poltroncine di precedenti. Ci allontaniamo lungo la rampa che porta verso la città, mi giro e leggo Dubai International Airport. A destra e a sinistra, dai finestrini, le stesse case, torri, palme, viste in cartone, chissà se l’aeroporto era una confessione o avvertimento di ciò che mi attendeva fuori?
Di:Paolo Rinaldini
Foto: Paolo Rinaldini